EPATITE POST-TRASFUSIONALE. SMARRIMENTO CARTELLA CLINICA CHE DOCUMENTA L’EMOTRASFUSIONE. È CONSENTITO AL DANNEGGIATO PROVARE D’AVER SUBITO LE TRASFUSIONI ANCHE ATTRAVERSO PROVA TESTIMONIALE.
A volte, per attingere le erogazioni economiche previste a favore della vittime di trasfusioni di sangue infetto, capita (ma non dovrebbe) che manchi la prova documentale delle praticate emotrasfusioni giacché le strutture sanitarie, depositarie, non “rinvengono” le relative cartelle cliniche.
Come noto, la cartella clinica, in caso di danno derivante da attività medica, assume un ruolo determinante in quanto essa è il diario quotidiano sullo stato di salute del paziente e delle terapie somministrate, comprese le emotrasfusioni.
Tra l’altro il Ministero della Sanità (ora, Salute) con apposita circolare del 1986 ha prescritto che il periodo di conservazione della documentazione sanitaria (cartelle cliniche, unitamente ai relativi referti), presso le istituzioni sanitarie pubbliche e private di ricovero e cura, fossero conservate illimitatamente.
Esse infatti rappresentano un atto ufficiale indispensabile a garantire la certezza del diritto.
Ciononostante, è ricorrente il caso in cui la cartella clinica sia tenuta in modo difettoso, ovvero incompleto o impreciso, o addirittura venga smarrita.
Ciò priva ovviamente l’avente diritto (ammalato) di una fonte di prova molto preziosa che lo costringe ad affrontare i giudizi con un pregiudizio processuale molto rilevante.
Ma, alla carenza della cartella clinica, come ora confermato da recente pronuncia giudiziale, può rimediarsi attraverso, dice la Suprema Corte, “presunzioni” o “prove testimoniali”.
Quindi, ove non si possa recuperare la documentazione clinica si può comunque dimostrare il ricovero presso la struttura sanitaria e l’avvenuta emotrasfusione attraverso il ricorso a “presunzioni” o a “testimoni”.